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Autoctonja, un erbario da indossare

A guardarle in controluce le opere di Daniela Palma rivelano tutto il loro fascino poetico. Fissati tra due vetrini orlati d’argento, i piccoli fiori si mostrano nella loro irripetibile perfezione e, grazie alle sue mani premurose, riannodano i fili persi nel tempo tra l’uomo e la natura.}

autoctonja
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"Autoctonja perché le piante raccontano la storia di un territorio. Storie dei posti da dove vengono che a volte possono essere anche lontanissimi”. E chissà da dove arrivano i lineamenti un po’ orientali e un po’ indiani, il nero corvino dei lunghi capelli e quel guizzo vivace che fa capolino negli occhi di Daniela Palma mentre spiega il perché di quel nome per i suoi monili. Chissà in quali boccioli, petali, stami, pistilli o corolle è custodita l’essenza del suo spirito libero. Perché lei sembra fare proprio questo: racchiude minuscoli frammenti di natura tra due vetrini rivelando a tutti la loro bellezza.





Daniela è uno scricciolo di ragazza che nasconde un’energia insospettabile e un amore per la natura incontenibile. Guida escursionistica Gae e attivissima volontaria del WWF Salento, ha macinato migliaia di chilometri e fatto scoprire anche ai salentini doc le meraviglie della loro terra. Lei è proprio quel che si dice “una forza della natura” e, a guardarla bene, potrebbe essere una ninfa dei boschi sotto mentite spoglie. “Ho cominciato più o meno sette anni fa”, racconta, “ma durante le mie lunghe camminate ho sempre raccolto fiori e foglie, perché il mondo botanico mi ha sempre affascinata. Camminavo, raccoglievo e portavo a casa petali, fiori minuscoli, foglie e foglioline. Volevo studiarli, dargli un nome, sapere chi erano e conoscere la loro storia”.




E così, a furia di camminare e raccogliere, le scatole hanno cominciato a riempirsi e le pagine dei libri già letti a diventare custodi di fiori pressati a dovere. “Ne avevo così tanti che non sapevo più come conservarli. Non volevo dimenticarli perché ogni foglia, ogni fiore mi ricordava qualcosa, aveva un senso e sentivo quasi il bisogno di averli vicini, presenti. Poi ho capito: volevo un erbario da indossare”. Il procedimento è apparentemente semplice: dopo aver raccolto il fiore Daniela lo essicca in una pressa proprio come si faceva per gli erbari. Poi taglia i due vetrini della forma più congeniale all’esemplare e, una volta racchiuso, applica prima una lista di rame e in seguito un bordo di argento saldato. Questa la tecnica.



Ciò che, invece, non è affatto scontato è la cura, la sensibilità e la capacità un po’ bambina di stupirsi dei più infinitesimali fiori, quelli che nessuno guarda, i negletti. Tutte cose che fanno delle sue collane piccoli atti poetici, versetti d’amore dedicati alla natura ma con “un’etica verde”. “Se vedo un prato fiorito, una zona ricca di diverse varietà di fiori, ne raccolgo pochissimi, al massimo cinque esemplari, una sorta di rappresentanza. Non mi piace l’idea di depredare, di raccogliere a manbassa senza curarsi di danneggiare microcosmi di vita. Più fiori differenti ci sono in un metro quadrato, più biodiversità c’è e questo mi rende molto felice”. L’entusiasmo di Daniela non sarebbe probabilmente lo stesso in un giardino “disciplinato” e piegato alle regole dell’estetica umana. Quello che le fa battere il cuore, e drizzare le orecchie da ninfa, sono i campi che solitamente definiamo abbandonati solo perché non sono stati colonizzati dall’uomo.

Accade solo se si pensa a un seme come a un archivio che racchiude la memoria del passato e un futuro possibile, come a testimoni silenti di migrazioni, immigrazioni, innesti e cambiamenti. Accade solo se si è in grado di mutare lo sguardo in ascolto di ciò che l’ambiente vuole dirci. E alla voce della natura si intreccia quella dei ricordi e di un sentire profondo. “Ricordo perfettamente il giorno e la circostanza in cui ho trovato ogni singolo fiore e, adesso che li conosco bene e so cosa significa la loro comparsa, li aspetto. Quando ‘arrivano’ vuol dire sempre qualcosa. È come se iniziassero a raccontare la loro storia”, dice Daniela accarezzando i suoi ciondoli floreali, “il mese scorso a Casalabate ho trovato la scilla. Il narciso dà il la all’autunno, la ‘borsa del pastore’, chiamata così per la forma delle piccolissime foglie, è sinonimo di primavera. Ma quest’anno è fiorita due volte per via dell’aumento delle temperature, cosa che in natura è normale ma non con questa frequenza. Tutto ciò che è intorno a noi ci dice qualcosa”.

E da qui si distende un grande prato di inestimabili gioielli: “L’anemone l’ho raccolto a Sant’Andrea, la calendula nella campagna di Trepuzzi, l’ombrellino pugliese nel Parco di Rauccio vicino alla torre colombaia, l’Alkama tintoria, piccolissima e tanto profumata, vicino alla masseria Monacelli. Il Cerinthe Major l’ho trovato nei pressi di Cerrate, è una pianta molto bassa e per questo passa inosservata. Per scorgerla occorre chinarsi al suo livello ma è molto importante perché è mellifera, serve alle api”. Quando poi queste minuscole meraviglie diventano ciondolo rivelano tutta la loro peculiare bellezza: “Sembra che le persone le vedano veramente per la prima volta”, dice Daniela, “le indicano con il dito ormai in forma di collana e chiedono ‘e questo cos’è?’. È in quel momento che ho sempre l’impressione di aver riannodato i fili di un legame antico tra l’uomo e la natura, di quel tempo in cui avevamo dimestichezza con le piante, si raccoglieva molto e sapevamo a cosa potevano servire. Avevamo la sapienza delle loro proprietà”.





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