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Cutrofiano. Il Montecalvario di Rocco, ritrovo di Santi e convicinato

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Ha il colore del cielo il ritrovo dei santi. E porte arrugginite, intonaco sbiadito e pareti frastagliate dove, tra rosari e madonne, si fanno spazio rose e tulipani. Ha il colore del cielo il ritrovo dei santi. E segni del tempo, scalfiti su una struttura angolare che da via Mentana si allunga fino a via Vanini, al civico 35, nascosto da un quadretto mariano così in bilico che, nelle giornate di vento, vibra e risuona leggero. Ha il colore del cielo “la casa dei santi”. E la firma di chi, per un miracolo ricevuto, decise di ascoltare solo la sua devozione, invocando il paradiso attorno a sé, per disegnarne il profilo e dar vita a quell’opera mistica e singolare che a lui, a Rocco Ferraro, nella sua Cutrofiano, valse per sempre la nomea di “lu Roccu te li santi”.





L’appuntamento con Giuseppe Botrugno, pronipote di Rocco, è alle 11; ma arrivare in anticipo è d’obbligo per lasciarsi sorprendere in solitaria, ancor prima di conoscerne la storia. Disorientamento e stupore accolgono chiunque arrivi fin qui: a un tripudio di statue e crocifissi che adorna le facciate fa da contraltare una pennellata timida che si intravede sui pochi centimetri sgombri da ogni sacralità. Questo pezzo di storia, raduno su strada di tutte le icone che risiedevano un tempo nelle abitazioni dei nonni, si lascia scrutare da diverse angolazioni. Su via Mentana, due dipinti fanno da sentinelle a un imponente crocefisso centrale, che dà il nome di Montecalvario alla struttura, posto sotto un tetto sormontato da statue e, in mezzo a loro, anche lui, icona tra le icone, immortalato in una foto davanti alla sua casa, con sguardo fiero e spalle larghe. Su via Vanini, invece, solo la porta d’ingresso interrompe quella sinfonia sacrale. Il primo sguardo offre una visione d’insieme, il secondo restituisce i dettagli: l’identità dei santi, le teste mozzate degli angeli, i calchi che si ripetono sempre uguali come in un rosario fermato su pietra. Contarli è impossibile, non esiste ordine né simmetria alcuna; il disegno obbedisce solo al filo devozionale dipanato da un uomo, a partire dagli anni ‘40. Rocco aveva solo 21 anni quando, vittima di un congelamento mentre era in servizio come guardia di finanza, fu immobilizzato per più di un decennio; poi, il miracolo e l’inizio di una fede incontenibile che avrebbe alimentato fino alla sua morte, nel ‘98, quando l’esterno fu simbolicamente donato al “convicinato”, rispettando la volontà espressa, a chiare lettere, su lastre affisse sulla facciata: “Rocco Ferraro ha donato Montecalvario ha tutto il vicinato. 1980” recitano, sfoggiando un italiano che fa sorridere. Un’eredità importante che restituisce il senso profondo della parola comunità. Ed è proprio lì, forse, nelle storie e negli sguardi di chi lo ha conosciuto che si nascondono ancora l’anima sua e quella del luogo, che erano finite per diventare la stessa cosa.





Poco distanti dal centro, in quell’arteria silenziosa, ci si lascia sfiorare da sguardi scagliati addosso come frecce, di fronte e alle spalle, dai santi e dai vicini che scrutano incuriositi le soste lunghe dei passanti. È l’arrivo casuale di Nicola, pronipote di Rocco, a rompere il ghiaccio e a introdurre a loro, prima ai santi e poi ai vicini, fornendo aneddoti e radunando tutti i personaggi di quel meraviglioso spettacolo “en plein air”. Le pentole sul fuoco possono aspettare, Zi Roccu va onorato a dovere; così, con l’aiuto di Giuseppe, le persiane si spalancano e il ricordo corale prende forma: a ogni voce corrisponde un racconto che muta a seconda del ruolo che Ferraro aveva deciso di assegnare. A Nicola spettava il compito di procurargli i suoi amati quaderni, “quelli alti e robusti”, su cui appuntare parole semplici con una grafia da seconda elementare: “la Madonna bella, lu Sacramentu, la Madonna bella, lu Sacramentu”. “La sua era un’ossessione. Era così fiero che ogni nipote, nel giorno del proprio matrimonio, doveva farsi immortalare proprio qui”, racconta indicando l’area di quella scenografia singolare, prima di cedere la parola a Tiziana, “convicina” di via Mentana. Tiziana è una “bambina di 47 anni”, la più piccola di questo accogliente microcosmo; ha occhi limpidi e un eloquio aggettivato che restituisce un’immagine nitida di quell’uomo “buono e stravagante”. Ricorda tutto di lui: l’amore per la sorella che, ogni pomeriggio, raggiungeva claudicante nell’ora del rosario; l’ossessione per il sole che, nelle giornate fredde, inseguiva di gradino in gradino; l’incedere lento del suo bastone, battuto per terra e sulle porte, per conferire ritmo al passo e alle preghiere, recitate con una voce solenne che, il più delle volte, svegliava lei e tutti i bambini della strada. Aveva solo 10 anni, ma non dimentica l’estrema naturalezza con cui lo zio, con straccio in mano, le domandava: “me le spolveri?”; un compito arduo a cui cercava di rispondere al meglio, in punta di piedi, spingendosi fin dove la sua altezza lo consentiva.





Su via Vanini, il silenzio cede il passo a risate e storie sussurrate all’ombra dei santi e i personaggi del “convicinato” si alternano con sfaccettature multiformi. Alla voce timida ma risoluta di Carmine, “nipote diretto di Rocco Ferraro”, si contrappone quella allegra e loquace di Vito Meleleo. Carmine ha 78 anni e, come ogni giorno, rientra dal lavoro alle 12 in punto con le mani ancora sporche di terra. Lui aveva il compito di scortare lo zio per tutta la provincia, dando il via all’operazione “il Santo del mese”, su cui nessuno poteva metter bocca e a cui “Rocco destinava almeno 200mila lire della sua pensione”. Vito, “Itu” per il Ferraro, su quella casa invece ci ha lasciato il segno: le sue opere erano finite in mezzo a quelle di artisti importanti e incorniciavano figure di santi ricavate da stralci di giornale che Rocco stesso ritagliava e gli commissionava. Oggi non ci sono più, restano gli aloni di quelle assenze disegnate su pietra: a ognuna Vito assegna il corrispettivo mancante, colmando il vuoto con una sequela di santi che percorre tutte le pareti, scivolando su pezzi tirati a lucido dalla mano invisibile che se ne prende cura. Perché c’è sempre una mano invisibile a prendersi cura dei santi, che sia uno o una moltitudine celeste. E a Montecalvario, per la prima volta, riesci a darle un nome e un volto: Maria Rosaria Amato, una donna di mezza età, piccola e minuta; capelli biondi e raccolti. È lei a occuparsi dei fiori, selezionando varietà e colori; è lei a passare in rassegna candele e luci, affinché tutto sia illuminato; è lei a sciogliere le coroncine dei rosari, quando il vento inclemente recita un elogio e le aggroviglia attorno alle statue. Il suo “è un semplice atto d’amore”, perché Maria Rosaria sa bene “quanta devozione ripose Rocco in questa casa” spiega con dolcezza prima di congedarsi insieme agli altri.





A Montecalvario non c’è più nessuno, solo Giuseppe che, nei minuti rimasti, tira fuori ritratti e dettagli, sfoderando colpi da maestro che lasciano lo spettatore inchiodato alla sedia fino ai titoli di coda: svela foto disseminate come pagelline, dietro le quali Ferraro appuntava preghiere e date; confessa quanto ardua si rivelò per lui la ricerca dei santi patroni di Vaste, conclusasi con un battesimo che assegnava a tre figure maschili i nomi di Alfio, Filadelfio e Cirino; rivela le incomprensioni con un’amministrazione che mal sopportava un uomo caparbio che riuscì addirittura a spostare una targa stradale perché, diceva, quel posto era riservato ai suoi santi. E racconta quanto speciale fosse quello zio che aveva soltanto deciso di vivere la fede a modo suo, lasciando a tutti un segno indelebile del suo passaggio. “Nessuno, qui, lo ha dimenticato. C’è una signora che, da 30 anni, porta un mazzo di fiori nei giorni della settimana santa, quando Montecalvario torna a risplendere, e c’è chi continua ad aggiungere ancora pezzi alla sua collezione” esclama con il sole negli occhi, indicando emozionato gli ultimi arrivati in casa Ferraro.
I raggi caldi disegnano un angolo quasi perfetto che da via Mentana si allunga fino a via Vanini, al civico 35. Sulla casa cala di nuovo il silenzio. Eppure, tutto è ancora vivo. Nei ricordi custoditi da Giuseppe, nei gesti di Maria Rosaria, nelle assenze colmate da Vito, nelle ore di sonno perse da Tiziana, nei mezzi sorrisi di Carmine, nelle pagelline disseminate in una comunità che ha smesso di farsi domande e, oggi, ricorda quell’uomo con un sorriso… “Roccu te li santi “c’è. È vivo. Sull’uscio di casa, protetto dai santi, insegue il sole e recita con voce solenne preghiere improvvisate che svegliano tutti i bambini del “convicinato”: “la Madonna bella, lu Sacramentu, la Madonna bella, lu Sacramento”. Prega, Rocco, prega forte e accompagna le tue litanie al ritmo forsennato di quel bastone. Ma grida, Rocco, grida forte, che quaggiù di uomini come te ne abbiamo ancora un disperato bisogno.




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