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“Vaie e vene comu a Maria tu furnu”
A Supersano, la storia delle sorelle Stradiotti scritta con fuoco e farina
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L’arrivo su via Diaz odora di ramoscelli d’ulivo appena bruciati, un profumo acre che invade tutta l’arteria più antica del borgo, così lunga che due occhi non bastano per immaginarne la fine. Quel “tom tom sensoriale” guida fino al civico 25, un portoncino incastonato nella pietra, dove fa capolino Fabrizio Mariano, pronipote delle fornaie più famose di Supersano. Sorriso sincero ed eloquio accogliente, Fabrizio, poco più di 30 anni, ha dalla sua la dialettica dei filosofi che restituisce le sfumature di uno scorcio novecentesco, quando ancora un forno di comunità sfamava intere generazioni e le porte spalancate su strada rendevano tutti un’unica grande famiglia. Siamo negli anni ‘40, a ridosso del conflitto: due sorelle appena ventenni danno il via alla loro impresa, “regalando una pagina di emancipazione femminile lunga 60 anni”, rivela orgoglioso schiudendo la porta.
Una pennellata nera riveste l’imponente forno, incastonato tra San Giuseppe e mucchi di fascine ammassati negli angoli sovrastanti l’apertura. Se il passato avesse un profumo, questo luogo sarebbe una fragranza mista di lievito e carbone, una poesia nostalgica che accoglie nella prima sala, dove una manciata di scale cede il passo a tavoli riverniciati, tegami smaltati e pale lunghe come asce. Al centro della cappa, una foto in bianco e nero attira subito lo sguardo di Fabrizio. “Da sinistra: Zia Vata, zia Maria, Rita, la vicina aiutante, e nonna Manna” annuncia con voce solenne, associando alle zie il corrispettivo racconto in termini di temperamento e ruolo. Zia Vata, sguardo severo e muso imbronciato, impegnato forse in uno dei suoi immancabili borbottii che precedevano la cottura, ha mani grandi e nere, maglia scollata e sandali ai piedi, un outfit color fumo che la accompagnava in tutte le stagioni dal 1940 al 2002.
Lei era l’addetta alla cottura, l’unica che poteva avvicinarsi al sacro fuoco, perché “quandu iddhra ‘nfurnava, dovevamo sparire tutti” rivela Fabrizio. Il suo era un rito consumato in silenzio con un via dettato da un semplice gesto: si avvicinava al forno, allungando la mano per raccoglierne il fumo, poi lo stringeva forte in un pugno e ne annusava l’odore, affidando al suo naso-termometro la sentenza: “è pronto!” diceva, avviando una staffetta che coinvolgeva sorelle e vicine, posizionate ai blocchi di partenza. Un rituale paziente che si concludeva con la veglia alla cottura “illuminata con questa lampadina”, racconta Fabrizio tirando fuori un romantico cimelio risalente, forse, alla seconda rivoluzione industriale. Quando il lavoro terminava, però, quell’aria burbera si assopiva assieme alla fiamma, lasciando spazio a una dolcezza riservata ai bambini che, sull’uscio, “attendevano impazienti ‘frissuli’ e ‘pucce’ calde”, racconta prima di presentare l’alter ego del sergente panificatore.
"a Maria tu furnu"
Maria: fazzoletto in testa e viso paffuto, divisa tra carriera politica e associazionismo ecclesiastico. A lei spettavano pubbliche relazioni e carico/scarico merci: dai rifornimenti di acqua e legna caricata a spalla, al ritiro del pane, preparato e marchiato dalle diverse famiglie con i propri simboli identificativi, e portato in bici su lunghe assi di legno. “Andava e veniva Maria ed è per questo”, sussurra il nipote, “che nasce l’espressione ‘vaie e vene comu a Maria tu furnu’” dice, facendo realizzare all’improvviso che era lei, proprio lei, l’origine “vivente” del verace modo di dire così diffuso in questa parte del Salento. Dopo le presentazioni di rito, Fabrizio passa in rassegna i tre ambienti dove le sorelle vivevano i diversi momenti della giornata.
Sveglia alle 5, col buio della notte bussavano al forno i primi panetti, la scorta famigliare per un’intera settimana. La prima “cotta” era alle 11, la seconda alle 14. Ogni prodotto aveva una sua fascia oraria, dettata dalle leggi del termostato Stradiotti perché, se il mattino era riservato a pane e “pucce”, il pomeriggio era il turno di “pastarelle e frise” che allietavano anche le domeniche di Fabrizio: “io, che da bambino sognavo di sporcarmi le mani con le olive, ero relegato a spaccare friselle”, dice divertito proseguendo sul filo narrativo che corre dagli inferi al cielo. Le alte temperature del forno, infatti, scaldavano tetto e “furneddhru sovrastante”: lo spazio usato oggi come deposito, un tempo era una sorta di solarium dove tutto il paese spiaggiava legumi, fichi e peperoni da essiccare.
Quello delle Stradiotti era un lavoro duro che si arrestava solo con il calar della sera quando, sfinite, rincasavano al civico 38. Non c’erano riposi né feste, gli intermezzi di vita si consumavano qui tra pause brevi, con un occhio all’uncinetto e l’altro al pane, e pause lunghe, nella sala retrostante, dotata di secondo camino su cui campeggiano “pignate” e il via vai immortalato di Maria. In quella stanzina accogliente, tra impasti e parole, passavano le ore più belle in compagnia delle vicine aiutanti. Il forno, infatti, era una sorta di raduno al femminile che rispondeva ai principi di emancipazione e spirito di vicinato.
Lo sanno bene Franca e Rita che, a un isolato da qui, alla parola “forno” accorrono per aggiungere farina al racconto. Rita, quella della foto, oggi è una nonna di 70 anni con un sorriso a finestrella che trasuda nostalgia e dolcezza. Con un accento adorabile ripercorre i ricordi e racconta: del buon cuore di Vata che contrattava ad personam il prezzo del pane, 200 o 1000 lire al quintale, in base alle possibilità della famiglia; delle ore passate a “‘ncuculare pucce” con Nunziata, Emilia, Michelina e Franca; di quel pane, “soffice come piuma impastato da due donne antiche”. E delle assenze, quelle incolmabili, che lasciano un groppo in gola “ogni volta che ci passi davanti” ammette sistemandosi i capelli per il “ritratto” che la immortala splendida e con due occhi pieni di commozione.
La signora Rita
Franca, invece, di anni ne ha 71 e si addentra nel forno con passo felpato e sguardo guardingo: “San Giuseppe non è quello di una volta”, redarguisce subito Fabrizio che sorride, stupito per l’attenzione da lei riservata all’angolo “ccappetti e santi”. Poi, prende aria e ripercorre gli ultimi anni dell’attività quando Vata, malata e sola dopo la morte di Maria nel ‘97, non ammetteva riposi: “Supersano non può rimanere senza pane nei giorni di festa”, diceva, trascinandosi giù dal letto per trasmettere un’eredità ancora incolta, racconta fissando Fabrizio con uno sguardo eloquente.
Il forno Stradiotti chiude nel 2002, dopo la sua morte. Fino ad allora i panetti continuavano a bussare a questa porta; con la scomparsa delle ‘furnare’ andava via un pezzo di storia. Oggi Fabrizio, con alcuni amici, ha recuperato i locali e, da tre anni, restituisce dignità e luce al luogo: il 7 e l’8 dicembre, l’antica ricetta delle pucce torna in forno ed è festa in tutto il paese. “La gente è felice, i nonni raccontano ai bambini una favola antica”, dice prima di strappare a Franca la promessa di un aiuto, perché c’è bisogno di mani sapienti per riportare in vita la tradizione. Nel frattempo, i giovani aiutanti cominciano ad arrivare, nei giorni che precedono l’evento le accensioni sono continue per portare il forno a giusta temperatura. C’è un bel clima, i ragazzi dicono di aver trovato già la nuova Maria, “un po’ più barbuta e con un’ape gialla al posto delle braccia”.
E a occhi chiusi, tra risate e fatica, sembra ancora di vedere lì le “furnare” più famose di tutta Supersano. Maria, con il suo appurato via vai, batte sul tempo l’erede a tre ruote, Vata si fa largo tra la folla, riprende il comando, lasciandosi alle spalle solo il nipote che, in silenzio, resta a guardare. Sfoggiando il suo vestito migliore, si avvicina al fuoco, allunga la mano e, con un gesto, raccoglie in pugno l’odore: “è pronto, Fabrizio!”, sentenzia cedendogli scettro e comando. La ciurma è al lavoro, il profumo invade le strade, bussa alle porte e sveglia tutti, ma proprio tutti, gli abitanti del borgo. Come accadeva nei giorni di festa, quando un pane soffice come piuma imbandiva le tavole e “due donne antiche” scrivevano, con fuoco e farina, una piccola storia rivoluzionaria. Sveglia, Supersano! Questo 1999, giurano le stelle, avrà il profumo di lievito e carbone. Parola di Frate Indovino.