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Desuonatori, dieci anni oltre la musica
Un'intervista a Valerio Daniele, anima e mente del collettivo musicale e artistico, in occasione di un compleanno speciale e del suo nuovo album, Racconti dalla fine del mondo
Tempo di lettura: 4 minuti
Il collettivo Desuonatori celebra dieci anni di produzioni, di autoproduzioni. Dieci anni di cammino in direzione ostinata e contraria, provando a riavvicinare l’uomo alla musica, a rinsaldare un legame al netto di economiche coercizioni, di diktat di mercato.
Tutto iniziò una sera d’inverno del 2013, in un vecchio casello ferroviario, il Km97, con la presentazione a un pubblico folto e caloroso di un gruppo di visionari che si dichiarava “coordinamento di autoproduzioni per la socializzazione di musica inedita in nuovi contesti di fruizione”, e con tre album, “Agàpi” (Francesco Massaro e Roco Nigro), “Calligrafie” (Dario Congedo e Nàdan) e “Sette piccole cose” di Valerio Daniele.
Abbiamo incontrato proprio Valerio, cuore pulsante del progetto e sapiente “mano esperta” che sta dietro a tante, tantissime produzioni del territorio, sia in veste di musicista che di tecnico e ingegnere del suono. Lo abbiamo incontrato in occasione dell’uscita del suo nuovo album, “Racconti dalla fine del mondo”.
Qual è l’ispirazione della tua nuova produzione? Da dove arrivano, e dove sono diretti, questi racconti musicali?
È difficile riconoscere l’origine precisa di questo lavoro. Le storie, i vissuti e poi le idee si sedimentano negli anni, a volte nei decenni, prima di arrivare a compimento. Fatta questa premessa, il disastro ambientale degli ultimi 10 anni in Salento mi ha certamente lasciato una traccia profonda ma credo che questo disco nasca da molto prima. Sono sempre stato attratto da un certo tipo di letteratura distopica. Le sue storie migliori sono spesso una proiezione dei nostri disastri e delle nostre rovine attuali, quelle di cui non abbiamo coscienza ma che impregnano la nostra quotidianità. L’idea alla base del disco è una paradossale convivenza fra visioni e ricordo, fra futuro e passato. Dove sono diretto? Mmm… Beh, sono diretto a chiunque voglia prendersi una buona mezz’ora di pazienza per ascoltarli! E poi a me stesso. Faccio musica per dare ascolto a parti di me che non conosco, e per regalarmi qualche istante di grazia.
Con questo album si celebra idealmente l’inizio del secondo decennio di Desuonatori. “Acqua minutilla e ientu forte”, “Death roars”, “In a nutshell”, “Bestiario Marino”, “Ferma l’ali”, “Meno mondo possibile”, “Primo canto alla macchia”. E tanti, tanti ancora. Le produzioni curate da Desuonatori sono ormai una ventina. C’è qualcosa che accomuna questi album? E cos’è?
Il bisogno, il sogno, la pacatezza, la ferita. L’essere innamorati di ciò che sta dietro l’orizzonte, e sfugge allo sguardo. Dietro a queste produzioni, al di là delle loro differenze, c’è l’esigenza di ritrovarsi, di unirsi attorno a un’idea di ri-umanizzazione della musica. C’è il sentirsi parte di un gruppo coeso di artisti che condividono prospettive, valori e significati, oltre che un’estetica.
Come pensi siano cambiati in questi dieci anni di attività, sia la musica, in generale, sia il pubblico che ne fruisce?
Credo siano cambiati radicalmente. Si dice: “il mercato della musica è cambiato” e questo è vero ma ancor più rilevante è il fatto che sia cambiato il senso che la musica ha per la società e per le comunità. In questi nuovi scenari, fare un disco in senso tradizionale, alla vecchia maniera diciamo, è un gesto fuori moda e quasi insensato. Anzituto perché i dischi non si vendono più, i negozi stessi di dischi sono quasi spariti. Ma, andando oltre l’aspetto meramente pratico, il disco inteso come opera completa, integrata, sistemica e uniforme ha lasciato il posto a un sistema in cui i singoli brani sono pubblicati frequentemente e, molto spesso, in breve tempo dimenticati. Si farebbe presto a riconoscere in questa tendenza una forma ancor più radicata di consumismo ma questo pensiero potrebbe essere superficiale. Credo che il rapporto fra la musica e la società sia destinato a cambiare continuamente. Era già successo tante volte nella storia, soprattutto nel 900, e sta succedendo ancora. Ecco perché fare un disco oggi è, in qualche modo, un gesto rivoluzionario. Al tempo d’oggi, agire, fare arte senza scopi diretti, anzi con la consapevolezza dell’insensatezza di alcune azioni, è un gesto importante perché riconduce la creazione artistica alla sua radice naturale, espressiva, profondamente umana.
L’elettronica negli ultimi anni è stata accolta praticamente da tutti i musicisti in modo più che benevolo. È diventata più che fondamentale, nelle produzioni. E il futuro? Quale potrebbe essere il prossimo step evolutivo di ritmi e melodie? Credi che potrebbe esserci un “ritorno al passato”?
Sì, oggi l’uso dell’elettronica è davvero frequentissimo. Ma è un campo talmente vasto e ricco di possibilità e suoni che anche i suoi utilizzi sono estremamente diversificati per maniera e scopi (funzionali e musicali). Io stesso la utilizzo in maniera del tutto personale, a volte “sbagliata” ed impropria e questo crea uno scarto, una differenza che contribuisce a generare la mia prospettiva sullo strumento. Non posso certamente prevedere il futuro ma so che non avrebbe senso rinunciare alla bellezza che artisti e creativi hanno prodotto nell’ultimo secolo, grazie all’utilizzo di teconologia ed elettronica. Il concetto di “ritorno al passato”, preso così, staticamente, non mi trova d’accordo e penso che nasconda anche elementi di pericolosità, non solo in musica, ma in tutt i campi della vita. L’umanità si evolve, nonostante la rovina che, dissennatamente, coltiva. Credo invece nella convivenza fra il passato e il futuro. Come in questo disco, appunto.
E il tuo futuro musicale, cosa ti riserva? Come e dove ti vedi, tra dieci anni? 10 anni?
Davvero non saprei dirtelo. Già la prospettiva della settimana prossima è indecifrabile per me. Sto lavorando da anni ad un progetto in quintetto, non strumentale questa volta. Ed è estremamente importante per me. Credo sia arrivato il suo momento.