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Storia e sapori nella cattedrale del vino

Nel cuore della Grecìa Salentina, la masseria e cantina L'Astore a Cutrofiano preserva un ideale di vita bucolica e un'agricoltura biologica e sostenibile.

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A sud della Grecìa Salentina, al centro della pianura carsica, sorge Cutrofiano. Fin dall’epoca romana, nella zona, si producevano con la terracotta “i cutrubbi”, orci utilizzati per il trasporto di oli e vini che, probabilmente, hanno dato origine al nome della cittadina. Una rigogliosa foresta forniva alle fornaci legna da ardere in abbondanza, si sviluppò così in loco l’arte figula, che ha caratterizzato per secoli la vita economica e sociale del paese.

Ed è così che ancora oggi, Cutrofiano fa parte delle “Città delle ceramiche”, vantando con le sue produzioni fama nazionale e non solo. Alla periferia del paese, in zona “Li chiani”, su una distesa di roccia calcarea pianeggiante, si erge la Masseria L’Astore. Due colonne in pietra leccese, tra alberi di pino e antichi lecci, invitano all’ingresso. Un vialetto conduce fino a una porta a forma di arco: “Qui inizia il viaggio in questa masseria, benvenuti a casa nostra”, accoglie sorridente Paolo Benegiamo.

Masseria L'Astore

“La nostra famiglia è proprietaria di questa azienda dagli anni ‘30 del secolo scorso, in passato l’azienda era appartenuta ai duchi Filomarino, i signori nobili di Cutrofiano”. Il riferimento è ai cento ettari di terreno, tutti in agro di Cutrofiano, coltivati a vigneto, uliveto e seminativo. L’arco anticipa una scalinata che accompagna giù, nelle viscere della terra. “Questo è uno dei frantoi ipogei più grandi del Salento”, inizia a raccontare Paolo, “le dimensioni della volta a botte sono pari a quelle della chiesa matrice di Cutrofiano, probabilmente è stato costruito dalle stesse maestranze”.

La sensazione in effetti è proprio quella di essere in un luogo sacro, le cavità carsiche del sottosuolo come cripte, le nicchie dei torchi, le sciave, le croci incise sulle pareti a scandire il tempo. I grossi conci di pietra leccese, le imponenti assi e perni di legno, le grosse macine trasudano immagini di fatica e sacrificio. Nell’aria sembrano ancora riecheggiare il liscio fruscio dell’olio lampante e le urla dei nachiri. “Il frantoio compare nel catasto onciario già alla fine del Seicento ed è rimasto attivo fino ai primi anni del Novecento, poi è finito in stato di abbandono e depredato per molti decenni. Noi lo abbiamo restaurato cercando di mantenerlo intatto quanto più possibile. Ora lo utilizziamo anche come luogo per eventi particolari, come matrimoni, meeting e concerti”.

In fondo, tra le due macine, si apre una porticina, e dietro questa inizia un’altra storia. “Nel 2000 insieme a mio padre Achille e ai miei fratelli, decidemmo di riprendere l’attività vitivinicola. Abbiamo reimpiantato circa 20 ettari di vigneto disposto a raggiera intorno alla masseria, frantumando le pietre per creare terreni drenanti. Abbiamo iniziato a costruire la bottaia interrata e la cantina di lavorazione vicina ai vigneti, in modo da portare subito l’uva in cantina”. Lo sguardo va in alto, la luce attraversa un anello di pietra che ha incisi i nomi del padre Achille e dei suoi figli Stefano, Luca e Paolo. Chiude una cupola retta da quattro archi, un esempio straordinario di lavorazione della pietra leccese e del carparo, da parte del maestro Francesco Pidri di Martano, “il maestro Pidri si è ispirato al Brunelleschi”, confida Paolo.



La cupola è l’anticamera di un’altra visione: la cattedrale del vino. Tre grandi navate con volte a stella custodiscono due lunghe file di barrique e cataste di vini in bottiglia. “Qui affiniamo i nostri vini, a temperatura controllata naturalmente e sempre costante, perché siamo sotto terra. Mio padre ha voluto realizzare con tutte le sue forze e notevoli sacrifici questa meraviglia. Una struttura che non è una semplice cantina ma un’opera d’arte a futura memoria”, racconta orgoglioso Paolo. In mezzo alle file di botti, una scala maestosa, illuminata dalla luce del sole, riporta in superficie e risveglia da un sogno a occhi aperti.

Abbiamo deciso di puntare su un’agricoltura biologica, sostenibile e legata al territorio. Produciamo vini autoctoni come il Negroamaro, il Primitivo, il Susumaniello e la Malvasia bianca. Utilizziamo forza lavoro esperta e locale, uomini e donne che conoscono la terra e gestiscono la vigna con l’esperienza maturata sul campo”. Filimei, Jèma, Krita e Massaro Rosa sono vini ormai conosciuti e affermati sul mercato. “Ogni etichetta racconta una storia, la famiglia, il nostro paese, la vita di masseria, la passione grika. Con la linea Alberelli abbiamo voluto salvare dall’espianto dei vigneti degli anni ‘50 e ridare dignità e valore alle loro straordinarie uve”, sottolinea Paolo, “i vini ottenuti da queste sono i nostri vini top”.

Paolo Benegiamo e i suoi figli

La visita continua con la degustazione che ha luogo nella masseria. La facciata è bianchissima pitturata a calce viva. Anche qui nessuno stravolgimento, tutto è rimasto com’era: le stalle, la chiesetta con il campanile a vela, le stanze del massaro al piano terra e quelle della famiglia al primo piano. “Noi continuiamo ad abitare qui, gli ospiti entrano nella nostra casa abituale, fanno la pasta e cucinano insieme a mia moglie Claudia, mangiano con la mia famiglia e bevono i nostri vini”. L’Astore è, di fatto, un viaggio multisensoriale, un tuffo nel mare della storia e della cultura salentina, un cammino nelle viscere della terra e un’emersione carica di profumi ed emozioni. È il simbolo di un’agricoltura sociale ed etica, un modello di vita bucolica in via di estinzione che, con ogni sforzo possibile, la famiglia Benegiamo cerca di preservare. Con l’obiettivo di tramandarla ai posteri.

(di Mimmo Cataldi)

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