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Gabriele Albergo, una Death Valley nella controra

Un diario oscuro della luminosissima penisola più amata dagli italiani: la Salento Death Valley, raccontata da Gabriele Albergo su Instagram.

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Il Salento, raccontato dai nuovi media. Con la rubrica quiWeb, pensata esclusivamente per la rivista on-line, vogliamo farvi conoscere quelle realtà "virtuali" che narrano il territorio con un account Instagram, una pagina fb, scritti fruibili solo su schermo, presentandovi personaggi e "cantori" moderni di un territorio che rivela angoli sconosciuti e punti di vista inediti, esplorati attraverso le tecnologie contemporanee.





Una tuta sporca di vernice davanti a un videopoker. Una sedia nel nulla della campagna salentina. I frutti di mare di Sant’Isidoro. I lividi dei fuochi d’artificio diurni nel cielo. I “tirapugnatori” delle feste patronali. Colate di cemento che si fermano a pochi millimetri dal mare. Un pugno di forasacchi su una maglietta bianca.





Siamo nella Death Valley, quella salentina, raccontata da Gabriele Albergo su Instagram. Qui il Salento stretto tra i due mari si allarga, fa suoi i grandi spazi della provincia americana e poi esplode in un ghiacciolo sciolto per la strada, negli occhi ineffabili di una Madonna sospesa su un comò, nel caldo inspiegabile del paese, sul bianco della calce che chiede pietà al sole. L’estate ha un’aura quasi macabra, vige una controra perenne e di umani ce ne sono pochi, fatta eccezione per qualche arto che spunta tra gli ulivi o dal verde invadente di un’aiuola. Ma, dietro le tende gonfiate dallo scirocco, accanto agli irriducibili del Bar Castello, di questa valle di lacrime, sembra quasi sentirne le voci, e riconoscerne le storie.







. Cos'è Salento Death Valley?





Salento Death Valley nasce per gioco, non è un vero e proprio progetto, è il nome che uso per la mia pagina di instagram. Death Valley perché mi piace molto la fotografia di paesaggio statunitense e il cinema di registi come Lynch o i fratelli Cohen, ripieno di riferimenti alla cultura e la decadenza dell’occidente. Immagini che mi hanno molto influenzato e quindi ho pensato di unire questa valle di lacrime con quell’altra. Il sottotitolo è “a black diary of the most beloved italian peninsula” un diario oscuro della luminosissima penisola più amata dagli italiani.






. Nelle tue foto, qualcosa di scontato, invisibile, diventa d'un tratto visibile. Che siano le braccia di un Cristo che sporgono da un balcone, un'anguria accomodata su un salotto, le giostre incappucciate in attesa della festa patronale. Sembra che una storia si racconti da tempo e che diventi udibile solo con la tua foto. Come nascono i tuoi scatti?





Voi lo sapevate da dove ha origine il termine “Servola”? Deriva dal “Cervelat”, un tipo di wurstel che portavano gli emigranti quando tornavano dalla Svizzera. Probabilmente per molti il nome era qualcosa di impronunciabile e quindi con il tempo è mutato fino a diventare “Servola”. Per me tutto ciò è stupendo, mi piace tanto l’errore che può diventare altro, che sconfina, che sovverte, non è una questione politica mi piace l’aspetto ingenuo, profondamente libero di tutto ciò. E quindi spesso il mio sguardo va alla ricerca di questi “errori”.





. Siamo lontani dal Salento da cartolina, quello dei paesaggi incontaminati, delle processioni tirate a lucido e messe in posa. Qui la natura è goffa, la devozione a tratti ridicola se non grottesca, il mare si intravede a malapena negli spazi sconfinati della noia periferica. Qualcuno ha parlato di provocazione, a noi sembra più una sottile forma di nostalgia.





Non so, penso che sia un mix. Spesso sono sarcastico e cinico nei confronti di quello che è adesso il Salento, non mi piace la piega che ha preso. Sono molto legato al territorio ma non sono campanilista, non mi va di definirmi salentino invece che pugliese come fanno molti per esempio. Fino a pochi anni fa nessuno conosceva questo posto, eravamo la periferia della periferia, ma in pochissimo tempo siamo diventati uno dei luoghi più visitati e ambiti del mondo conservando comunque quelle che erano le nostre caratteristiche peggiori. Quindi automaticamente, per atavico senso di inferiorità, abbiamo dovuto mostrare solo la parte migliore, che poi non è nemmeno opera nostra ma della natura, e tutto il resto è stato nascosto. Io vado alla ricerca di questo rimosso, perché credo ci sia il bisogno di riportarlo a galla e farci urgentemente i conti.






. La fotografia, il racconto del territorio, pare una strategia di sopravvivenza in una dimensione geografica a tratti soffocante. Come si vive, o sopravvive, nel Salento?





Ho sempre vissuto questo luogo in modo conflittuale, si vive male e allo stesso tempo bene, ma ci sono sempre rimasto, tranne qualche piccola esperienza fuori. Per sopravvivere ho cercato di vivere ambienti più vicini alla mia natura, mi ritengo un disadattato e quindi me la facevo con gli altri come me. Per tanti anni ho suonato punk e hardcore, forse questo mi ha aiutato molto, ma la scoperta della fotografia forse mi ha veramente salvato. Adesso ho un po’ di progetti e sto iniziando a muovermi in senso lavorativo, più commerciale e la cosa non mi dispiace affatto, ho fatto sempre lavori piuttosto pesanti, adesso mi diverto.


 


Gabriele Albergo è nato nel 1981 a Galatina e oggi vive a Cavallino. Dopo il diploma tecnico, ha iniziato a scattare nel 2012, nonostante metà della sua vita sia trascorsa nello studio fotografico di suo padre. Intorno ai 30 anni, inizia a scattare con una Reflex Entry Level e poi passa quasi subito alle Pentax di famiglia. “Avendo vissuto sempre qui, sto capendo che probabilmente quello che ritraggo ha a che fare con un mio rapporto piuttosto conflittuale con questo territorio e che forse, riportarlo in immagine, mi aiuta a comprenderne la natura”. Tra il 2013 e il 2015, lavora su “La terra del rimorso”, progetto fotografico in analogico e con pellicole scadute, scatti onirici e quasi sospesi nel tempo sulla memoria e sull'identità dei luoghi. Nel 2017, lavora in un centro per minori stranieri, cui si accosta anche con l’obiettivo della sua macchina fotografica. “Siamo abituati a vedere i migranti come una massa informe, unica e monolitica e non si ha il coraggio di aprirsi ai singoli individui”.







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