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Alla ricerca del riccio perduto
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I ricci di mare, antica predilezione dei salentini, fanno parte di quelle chicche cibarie di cui era costellata la gastronomia del Tacco, che impreziosiva una base costituita da prodotti in massima parte poveri e terragni, con tutto ciò che la biodiversità dei vari ambienti marini e terrestri metteva a disposizione.
Nulla, o molto poco di quanto la terra e il mare offrivano spontaneamente è sfuggito all’alacre popolo salentino che ha anche saputo valorizzare al meglio queste preziose risorse. Il contadino salentino, per esempio, aveva anche dimestichezza con il mare, da cui con mezzi rudimentali riusciva a trarre risorse con cui integrare piacevolmente la dieta. Capro espiatorio di queste contadinesche incursioni marine erano spesso anche gli inermi, amatissimi ricci.
Ma non solo. In ognuna delle piccole calette presenti lungo la costa salentina, tanto del versante adriatico quanto di quello ionico, insisteva una più o meno nutrita flottiglia di gozzi, molti dei quali dediti proprio alla pesca dei ricci con tecniche e attrezzi adattati alle caratteristiche e alla profondità dei fondali del luogo. Vario il campionario di attrezzi tradizionalmente utilizzati nelle marinerie salentine, di cui spesso oggi resta solo l’antica nomenclatura archiviata nella memoria dei più anziani.
Questa pesca veniva infatti praticata con i pittoreschi gozzi in legno e l’ausilio dello “specchio”, un barilotto metallico con un vetro alla base utilizzato per scrutare i fondali, e con altri rudimentali, ma efficaci mezzi: la “vracioddhra”, la “ranfuddhra” e la “ranca”. La “vrancioddhra”, utilizzata dai pescatori di Porto Cesareo sui fondali inferiori ai quattro metri di profondità, consisteva in un anello di ferro applicato a 90° all’estremità di un’asta di pick pine. L’anello presentava una sorta di dente con il quale veniva staccato il riccio dalla roccia che, con un rapido movimento di polso, era poi alloggiato sull’anello e velocemente recuperato salpando l’asta.
Nei piccoli porticcioli della sponda adriatica salentina veniva usata la “ranfuddhra”, uno strumento ancora più arcaico e rudimentale, trattandosi di una semplice canna di Arundo donax, una comune canna domestica di adeguata lunghezza e diametro, la cui estremità veniva spaccata in quattro sezioni che venivano mantenute più o meno divaricate con diversi accorgimenti, a seconda della grandezza dei ricci che dovevano ghermire dai bassi fondali, poi recuperati, sempre uno per volta, salpando rapidamente la canna.
La “ranca” era invece appannaggio pressoché esclusivo delle piccole comunità pescherecce della costiera neretina, in particolare di Sant’Isidoro, dove insisteva una nutrita schiatta di valenti pescatori di ricci che, nomen omen, facevano Rizzo di cognome, mentre venivano soprannominati “Rizzari” per il mestiere che praticavano. Quest’ultimo attrezzo consisteva in un ferro ricurvo e una adiacente “mappa”, ovvero una sorta di grosso batuffolo costituito da brandelli di rete, fissato all’estremità di un’asta di circa quattro metri di lunghezza alla quale, in base alla profondità di esercizio, potevano essere innestate sino a due altre aste di uguale lunghezza. Con il ferro si staccavano i ricci dalla roccia, manovrando ad arte l’asta venivano fatti impigliare parecchi per volta e si recuperavano salpando le aste. Quest’ultimo attrezzo permetteva oltre che di catturare molti più esemplari alla volta, anche di operare a profondità più che tripla rispetto agli altri.
Questi pittoreschi sistemi di pesca però, che appartengono al passato, sono stati oggi definitivamente archiviati in quanto, a causa della pesca indiscriminata praticata con gli autorespiratori, la popolazione di ricci si è molto ridimensionata e, nonostante il fermo biologico di due mesi all’anno, maggio e giugno, si va paventando sempre di più la pressoché totale distruzione dell’intero stock.
Le cause sono molteplici, quale la moda dei piatti a base di “polpa” di riccio ormai praticamente serviti in tutti i locali con cucina a indirizzo marinaro. Ciò induce i pescatori a violare le regole pur di esaudire la sempre maggiore richiesta di vasetti di polpa di riccio, a cominciare dal prelievo degli esemplari di piccola taglia che non avrebbero mercato nel consumo a crudo, ma che sacrificati a migliaia vanno ugualmente bene per riempire i vasetti. Si ricordi infatti che le dimensioni minime stabilite per legge devono essere non inferiori ai sette centimetri di diametro, aculei inclusi, e che per raggiungere le dimensioni commerciali il riccio impiega dai cinque ai sette anni.
Vige inoltre anche un limite numerico alla raccolta, stabilito in cinquanta per il pescatore sportivo e in mille esemplari al giorno per il pescatore professionista, se è da solo, di duemila se con imbarcazione e assistente a bordo. Ma le difficoltà di monitoraggio e la propensione all’illegalità di tanti giovani disoccupati, spesso tollerata come ammortizzatore sociale, fanno sì che tali regole rimangano relegate nel libro delle buone intenzioni.
Ma vediamo di conoscere un po’ meglio questi invertebrati marini appartenenti al philum Echinodermi, termine composto da echinos (riccio) e derma (pelle). Le diverse specie di riccio di mare, se ne contano oltre seicento, vivono abbondanti in tutti i mari, alle più varie profondità, dagli scogli litoranei agli abissi. Hanno corpo globoso o depresso, rivestito di piastre calcaree saldamente riunite a formare una corazza; la bocca è situata nel polo inferiore ed è armata d'uno speciale apparato triturante, detto lanterna di Aristotele, che si sviluppa all'interno del corpo cavo.
Nel Salento, per distinguere i ricci commestibili da quelli non commestibili, si parla comunemente di ricci maschi e ricci femmine, ove da antico retaggio popolare, i commestibili sarebbero i ricci maschi. I più perspicaci, invece, indicano come commestibili i ricci femmina, deducendo per logica che, se le parti edibili sono uova, le uova le fanno le femmine. Invero, questa distinzione viene fatta fra due distinte specie, rispettivamente: Arbacia lixula, quella non commestibile e Paracentrotus lividus, quella di interesse gastronomico della quale la parte che viene consumata sono le gonadi di entrambi i sessi.
Ma come fare a non giustificare questo abbaglio popolare? L’Arbacia lixula, con i suoi aculei lunghi, nerissimi ed elegantissimi, è molto femminile, quasi sensuale, con un po’ di fantasia i suoi aculei rimandano alle lunghe ciglia bistrate delle vestali di un tempio di Venere, niente a che vedere con le fattezze decisamente maschie e tozze del sedicente compagno, il quale perfettamente edibile, oltre che irretire i golosi con i suoi colori, riesce al massimo, a colpire l’estro di qualche pittore.
Anche le gonadi di specie diverse dal riccio, per così dire, nostrano sono una prelibatezza per la maggior parte delle popolazioni costiere e, per molti, costituiscono un’irresistibile predilezione se è vero, e non abbiamo motivo di dubitare, che la famosa scrittrice Isabel Allende, come da lei stessa dichiarato, cedette la sua illibatezza a un vecchio pescatore in cambio di un assaggio di irresistibili ricci.
Ma oltre alla gola c’è di più. Si è scoperto infatti che le loro gonadi costituirebbero un’arma in più per il benessere e la lotta anti-tumorale, contenendo in gran quantità una molecola dalla struttura molto semplice, un amminoacido modificato, denominata ovotiolo, che svolgerebbe un’azione antitumorale su cellule di carcinoma epatico. Il trattamento con ovotiolo determinerebbe un tipo di morte delle cellule tumorali detto autofagia. I risultati di questa ricerca, pubblicati sulla rivista internazionale Marine Drugs, confermano come il mare sia una immensa fonte di molecole con proprietà benefiche per l’uomo, attraendo l’interesse della comunità scientifica e farmaceutica per la scoperta di nuovi farmaci.
I salentini di entrambe le sponde sono stati sempre golosi estimatori dei ricci, antica passione supportata dalla facilità di prelievo e, nel passato, dalla loro cospicua diffusione su tutti i bassi fondali rocciosi. Vengono pescati e consumati tutto l’anno, con l’esclusione del periodo di fermo in cui sono vietati la pesca, la commercializzazione e il consumo, perché in periodo di riproduzione. Che poi sarebbe anche il periodo in cui si presentano nella forma migliore, ossia con le gonadi mature, quindi particolarmente sviluppate e spesso di un’invitante colorazione rosso fuoco. Dagli intenditori vengono ricercati i ricci di Cystoseira, ovvero nati e pasciuti sui bassi fondali rocciosi colonizzati da queste profumate alghe brune.
Solo a titolo di curiosità ricordiamo che in alcune località marinare, oltre al riccio comune (Paracentrotus lividus), un tempo era ricercato anche il molto meno comune riccio di prateria (Sphaerechinus granularis), in vulgo salentino “rizzu monacu”, il quale, pur avendo gonadi commestibili, anche se piccole e diafane, veniva pescato principalmente per il suo massiccio esoscheletro che, essiccato, pestato e addizionato con olio d’oliva o sego, veniva utilizzato nella farmacopea popolare al posto dell’ittiolo nella cura di diverse dermatosi. Mentre, sempre nel Salento, alla lanterna di Aristotele dell’Arbacia lixula, venivano riconosciuti poteri protettivi, in quanto essiccata, racchiusa in un sacchettino e appesa al collo della persona sofferente era considerato un potente amuleto che proteggeva dallo “stericu”, ossia dall’isteria.
Si auspica, oggi, una moratoria al prelievo dei ricci, per ottenere la ricostituzione dello stock e un successivo varo di regolamenti sul loro prelievo, più stringenti ed ecosostenibili. I ricci vanno gustati appena aperti, intingendovi pane appena sfornato, accompagnando il tutto con un ottimo rosato del Salento, fresco al punto giusto. Ma da tempo sono divenuti croce e delizia della ristorazione locale che ha saputo elaborare vari e ottimi piatti a base di “polpa” di ricci. Forse, troppo richiesta per essere comunemente e sostenibilmente reperibile.