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Narrazione e canto: in scena l'attualità e l’umanità di Alessandro

Alessandro
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Fabrizio Saccomanno “canta” Alessandro Leogrande. L’attore e regista salentino affronta, in scena, la straordinaria e complessa figura del giornalista e scrittore tarantino. “Il più grande intellettuale della sua generazione”, come lo ha definito Goffredo Fofi, schierato a difesa degli sfruttati, dei deprivati, degli abbandonati, degli ultimi insomma. Leogrande se n’è andato a neanche quarant’anni, poco meno di cinque anni fa. Ha lasciato un’eredità letteraria piuttosto vasta, piccolissima se confrontata al suo sconfinato patrimonio di umanità, che emerge tutta nello spettacolo “Alessandro. Un canto per la vita e le opere di Alessandro Leogrande”, prodotto dal Teatro Koreja, diretto e interpretato da Saccomanno che, giovedì 21, torna sul palcoscenico di via Dorso, a Lecce, dov’è stato protagonista tanti anni, per un'anteprima dello spettacolo (la prima ufficiale è il 20 maggio presso il salone del libro di Torino). Con lui in scena: Giorgia Cocozza, Emanuela Pisicchio, Mariarosaria Ponzetta e Andjelka Vulic.

Alessandro Leogrande

Come nasce l’idea di uno spettacolo su Alessandro Leogrande?

“Alessandro” è nato proprio dall’esigenza di cantarne la vita e le opere, che finiscono per coincidere. Per lui scrivere era uno stato di necessità, era come infilarsi ogni giorno dentro il presente e provare a raccontarlo nelle sue contraddizioni, nelle sue storture, nelle sue tragedie. Cercando di fare luce nel buio, di affrontare la complessità della realtà e provare a dipanarne i fili più intricati. Dalla sua scomparsa si sente un grande vuoto. Per questo penso che un tributo a lui sia una questione di teatro. Raccontare Alessandro è aprire i pori della pelle dello spettatore e inondarlo di complessità, di parole preziose, di straordinarie chiavi di lettura del reale. Sono partito da qui.

Per usare le parole di Goffredo Fofi, il suo più importante maestro, “l'augurio è che amici, allievi, giovani che conoscono Alessandro, si mettano sulla sua strada e producano cose nuove, più vaste nella misura in cui siano in tanti a farlo”. Lo spettacolo va in questa direzione?

Lo spettacolo va nella direzione di raccontare Alessandro nel suo sporcarsi le mani. È lui che attraversa Taranto e si interroga sulla sua città. È lui che cammina per le campagne della Capitanata per incontrare le vittime del caporalato. È sempre lui che va in processione a Lampedusa per i migranti, che raggiunge Valona per incontrare i superstiti della Kater i Rades. Questo è Alessandro Leogrande. Diceva che per fare giornalismo d'inchiesta c’è bisogno soltanto delle scarpe. Lui si definiva autore di non fiction. Semplicemente infilandosi le scarpe e raccogliendo delle storie, ha creato un genere nuovo. Quello che tanto ha influenzato Roberto Saviano nella scrittura di Gomorra. Lo scrittore napoletano si è dichiaratamente ispirato a “Le male vite”, un’opera giovanile di Leogrande sulla Sacra corona unita.

Quale ruolo hanno nella messa in scena le attrici di Koreja?

Per una volta non sono io che racconto, non ce n'è motivo. Alessandro si racconta molto meglio da sé con le sue parole. Io provo a essere il cantore delle sue parole. Durante il lockdown mi è venuta voglia di leggere tutta la produzione letteraria di Alessandro. E più lo leggevo, più sentivo un canto in sottofondo. Collaborando con Koreja, è stato naturale coinvolgerne le attrici che da tempo lavorano sul canto. L'idea è proprio di realizzare un canto poetico sull’azione e sulle parole di Alessandro. È una sorta di teatro performativo. I canti servono a rendere conto della poesia che è in quelle parole. Le attrici di Koreja sono delle meravigliose compagne di viaggio. Non riesco a pensare lo spettacolo senza di loro. È come porsi insieme di fronte al mare del mondo, qualcosa che Alessandro ha fatto incessantemente per tutta la vita. Giorgia, Emanuela, Mariarosaria e Andjelka interpretano alcuni canti provenienti da varie parti della Terra, altri inediti creati appositamente per lo spettacolo e un brano di Bob Dylan, “When the ship comes in”. Dylan era uno dei cantautori preferiti di Alessandro, che non a caso scelse questo testo come apertura di “Il naufragio”.



La cura del progetto e la consulenza artistica sono affidate al direttore del Teatro Koreja Salvatore Tramacere, che rappresenta la memoria storica di Alessandro Leogrande. Quali le sensazioni di questo “ritorno a Koreja”?

In realtà è un dialogo che non si è mai interrotto. Da subito ho pensato che se mai avessi realizzato lo spettacolo, l’avrei fatto con Koreja. Salvatore e Koreja rappresentano il punto di contatto tra Alessandro e il teatro. La “Kater i rades”, l'opera musicale realizzata da Koreja, è stata la sua prima volta, la sua prima esperienza di teatro. Alessandro ha scritto il libretto dell'opera, traendo spunto dal suo libro “Il naufragio”. E poi c'è la dimensione umana. Sapevo che Salvatore lo conosceva a fondo, che ne era grande amico. Grazie a lui sono potuto venire in contatto con una serie di persone vicine ad Alessandro, in particolar modo con la madre. È stato fondamentale conoscere Maria. Lei mi ha incoraggiato a continuare dopo aver assistito al primo studio. È una delle più belle sensazioni che possano capitare a un teatrante: che la madre del protagonista della tua opera ti raccomandi di portare a compimento la missione. Tutto questo non sarebbe potuto avvenire senza Koreja e senza Tramacere. È stato il tutor del progetto, proprio nel senso latino del termine, mi ha protetto. Si è preso cura di tutto quello che c’è intorno al palcoscenico, di tutto quanto viene prima e dopo. Non soltanto degli aspetti tecnici e produttivi, ma ha rappresentato anche la componente affettiva, umana. La sua testimonianza non è diventata direttamente materia per il palcoscenico, ma mi è stata di grande aiuto a restituire compiutamente la figura di Alessandro nella drammaturgia. Me lo ha fatto sentire vicino, amico, vivo. (Gianni Pignataro)

 

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