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Intrecci di corda antica

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Braccia forti, gesti decisi, un occhio vigile e sulle spalle il peso di un’esperienza che cresce e si fortifica da più di cent’anni. “Non ci si improvvisa fiscolai”, asserisce Adolfo Cazzato, classe 1970, padrone di casa e della bottega, nel cuore di uno dei borghi più belli d’Italia. E di certo, non il suo caso, perché l’intreccio della corda pratica antichissima nella famiglia Cazzato, sin dal lontano 1890. Ad aprire i battenti, infatti, fu il bisnonno Santo, a fine secolo, capostipite dei fiscolai di Specchia, iniziatore della bottega che produceva 09. Ancora oggi Santo sorveglia il lavoro, dal ritratto in bianco e nero appeso alle pareti del laboratorio. Insieme a lui, lo sguardo dolce e il sorriso di nonna Elisa, unica donna a sedersi dietro ai telai, “fiscolaia vera”, commenta Adolfo. “Io ho cominciato da piccolino”, racconta, “insieme a papà”, il signor Antonio, oggi 87 anni, “che ha ancora tantissime cose da insegnarmi in bottega”.

Di “olio” sotto i ponti, ne è passato tantissimo, da quando il Salento era terra di esportazione d’olio lampante a oggi, epoca in cui l’ulivo era merce fragile e rara. E con il tempo, anche la produzione della bottega Cazzato è cambiata, conservando la tradizione, ma adattandola a nuovi gusti, nuove opportunità e mercati. Non più filtranti, ma tappeti in fibra vegetale di cocco, sottopiatti, ceste, tende e borse di corda, portachiavi e portapenne di iuta, rivestimenti per vasi, porta frutta, poggia pentole, gioiosi rosoni, impagliature di sedie, componenti di arredo e decorazioni murali. Ogni prodotto non solo è fatto completamente a mano, ma anche utilizzando strumenti d’una volta, vecchi telai originali, dove la corda lentamente s’intreccia, acquisisce senso e volume, e si trasforma in un manufatto unico. Sono cambiate, invece, le materie prime, che, insieme alla rafia e al cocco, oggi annoverano il cotone, la iuta e la sisal, la corda naturale, allo stato grezzo oppure in allegre tinte pastello.



Sotto le volte a stella del suo laboratorio, dipinto di giallo paglierino, appese alle pareti, ci sono ancora le foto d’epoca, in compagnia della nonna e del papà, i sorrisi dei suoi bambini. Tra le pile di fiscoli, ci sono il vecchio torcitoio in mostra e la ruota dove papà Antonio filava il giunco. Sparsi nei tre ambienti, invece, gli attrezzi del mestiere: pinze, aghi, martelli, l’equivalente della borsa del cucito per questa antichissima arte dell’intreccio delle fibre, che paradossalmente vide la luce sotto terra, nella semi oscurità dei tanti frantoi ipogei che ancora costellano il Salento. L’intreccio del fiscolo ci parla di tempi non tanto lontani, di personaggi scomparsi, di sansa e di “capicanale”, di “nachiri” e di fatica, ma oggi di lustro a masserie, agriturismi e perfino lounge bar, in tutta Italia e all'estero. “Ci siamo fatti conoscere grazie a fiere e mercatini”, racconta Adolfo, con una punta di amarezza perché, oltre alla pandemia, l’artigianato salentino ha subito e subisce la concorrenza della produzione industriale, della perdita di senso del lavoro manuale. Insieme all’arte, Adolfo teme possa perdersi anche la storia del “fiscolo”, il suo senso e il suo valore: “vedo ormai che in molti frantoi ancora esistenti si usa il fiscolo singolo, il diaframma, ma questo è un errore, storico e culturale”, spiega, “negli antichi frantoi si usavano i fiscoli doppi, dove tra i due dischi si faceva passare la pasta di olive”. Qui, nel frattempo, si continua a intrecciare, il tempo non s’insegue ma si cattura in un nodo, s’intrappola nell’ordito della corda, la ruota della tradizione cambia volto ma continua a filare. Senza più spine.

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