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In carcere, con la libertà del ricordo e la forza dell’identità

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Ricordare se stesse, ricordarsi di esistere cucendo nel silenzio il proprio nome, gridare la propria esistenza con ago e filo rosso su un telo bianco, "Il lenzuolo della ricordanza", che ha dato il titolo alla performance teatrale tenuta lunedì 18 novembre nella Sala teatro della casa circondariale Borgo San Nicola di Lecce. Lo spettacolo è stato la conclusione del laboratorio rivolto a un gruppo di sei detenute della prima sezione femminile della struttura penitenziaria, diretto da Emanuela Pisicchio, attrice e pedagoga del Teatro Koreja.





L'idea è di Ornella Cucci che, in collaborazione con Marisa Visconti, ha portato nel carcere il progetto "Il filo rosso che unisce" dell'artista milanese Silvia Capiluppi, nomi di donne ricamati su lenzuoli bianchi con un filo rosso che le lega tra loro, in segno sorellanza. Ornella Cucci ha incontrato le detenute, le ha ascoltate e le ha invitate a fare lo stesso. Le ha accompagnate in un percorso intimo liberatorio e catartico, che poi ha preso forma con il teatro, per vincere le paure e ritrovare la fiducia in loro stesse.





"Ci siamo incontrate in una stanza con qualche sedia e banchi di scuola. Abbiamo usato il nostro nome per presentarci all'altra, per manifestarci. Abbiamo avuto subito necessità di fare spazio attorno a noi, di camminare insieme, di guardarci negli occhi, di respirare all'unisono", racconta Emanuela Pisicchio, "in un luogo in cui il proprio nome viene quasi sospeso e diventa segreto per pochi concesso di rado, abbiamo lasciato scorrere il suono dei nostri nomi e ne abbiamo raccontato la storia".





Il carcere si prende tutto, non solo la libertà. In galera si perdono identità e valori, non c'è più passato, il futuro è nebuloso, spaventa. Il presente è un tempo di cui non si dispone più, scandito da routine sempre uguali, tutti i giorni, cadenzato da programmi che annullano la persona. Le ore sono segnate dai compiti stabiliti dall'istituto penitenziario, quindi se arriva la cuoca significa che sono le sette e se qualcuno chiede la spazzatura allora sono le tre del pomeriggio. Ma l'umanità si fa spazio e "Angela canta" per annunciare che l'orologio batte le otto: in sala ridono le detenute-spettatrici, è il filo rosso che si srotola dalle attrici e arriva in platea, il cordoncino che le unisce in quel quotidiano infernale e insieme si fanno beffe di chi impone le regole, rotte per un attimo da quel canto irriverente.





Sul palco le musiche e le voci di Ninfa Giannuzzi, Vanessa Sotgiu e Simona Gubello aggiungono delicatezza e grazia, amplificano il senso delle parole che svelano le vite, danno ritmo soave ai gesti mimati e abbracciano i corpi vestiti di bianco che danzano tra teli bianchi. La ricerca musicale ha accompagnato la scrittura durante il laboratorio, e così pezzi come "Redemption song" di Bob Marley, "Quello che le donne non dicono" di Fiorella Mannoia (e altri ancora), sembrano essere perfetti per evocare la liberazione da una condizione che opprime, oppure i sentimenti celati nei silenzi obbligati.





Lucia, Barbara, Soria, Tiziana, Cristina e Semira hanno squarciato il muro del silenzio, hanno pronunciato il loro nome, ricercato l'origine, sollecitato un ricordo. E mentre i punti si intrecciano nel tessuto affiorano dolori, affanni, gioie, rimorsi ma anche desideri, sogni e speranza, che per il momento sembrano essere l'unica via di fuga.





(Laura Casciotti)


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