Arriva nelle sale “L’ultima settimana di settembre”, film d’esordio del salentino Gianni De Blasi
Diego Abatantuono e il giovanissimo Biagio Venditti sono i protagonisti del road movie che racconta, con tenerezza e poesia, dell’ironia beffarda della vita, dei legami importanti. Sabato 14 la presentazione a Lecce. Domenica 15 a Nardò.
Dopo l’applaudita anteprima al Giffoni Film Festival dello scorso luglio, esce in sala giovedì 12 settembre “L’ultima settimana di settembre”, opera prima del regista salentino Gianni De Blasi. Due i protagonisti della storia: Pietro Rinaldi, un anziano scrittore in declino interpretato da Diego Abatantuono, e il nipote adolescente Mattia, interpretato dal giovane Biagio Venditti, già noto al giovane pubblico per la partecipazione alla serie “Di4ri”, targata Netflix.
Il “road movie salentino” ruota attorno alla figura di Pietro Rinaldi che, ormai stanco della sua esistenza, decide di suicidarsi nel giorno del suo compleanno. Ma una tragedia familiare, la morte della figlia e del genero, lo costringe a rivedere i suoi piani e lo mette davanti a Mattia, nipote praticamente “sconosciuto”. Nonno e nipote si ritrovano così a vivere una dolorosa e imprevista convivenza. E ad affrontare un viaggio che, tra colpi di scena e avvenimenti inaspettati, cambierà per sempre i loro destini, e in particolare il loro rapporto, mettendo l’uno dinanzi all’altro, come identici riflessi. Tratto dall’omonimo romanzo di Lorenzo Licalzi, edito da Rizzoli, scritto dallo stesso De Blasi con Antonella Gaeta e Pippo Mezzapesa, prodotto da Attilio De Razza e Nicola Picone per Tramp Limited, in associazione con Passo Uno Cinema e distribuito da Medusa Film, il film è girato interamente nel Salento, tra Lecce, Nardò e Gallipoli, realizzato con il contributo di Apulia film fund di Apulia film commission e Regione Puglia.
In uscita nelle sale di tutta Italia giovedì 12, le proiezioni di sabato 14, al Multisala Massimo di Lecce, e di domenica 15 al Pianeta Cinema di Nardò, saranno alla presenza del regista, Gianni De Blasi.
Quanto è stato importante aver “giocato in casa” per questo esordio?
Il libro di Licalzi racconta di un viaggio da Genova a Roma, e già nella fase di adattamento abbiamo concordato col produttore, Attilio De Razza, anche lui salentino, originario di Nardò, che il filo doveva spostarsi in Puglia e in particolare nel Salento. Volevamo fare un film ambientato nella nostra terra. È stata una scommessa: puntare tutto sul territorio. Sono felicissimo di aver girato qui, ho potuto contare su tutta la mia troupe storica che si è formata fuori e si è ritrovata qui per lavorare al film.
Com’è stato il rapporto sul set con gli attori, sia con un “mostro sacro” del cinema italiano, sia con un giovanissimo esordiente?
Comincerei con Biagio Venditti. Meno noto di Diego Abatantuono, ma aveva già un suo pubblico di preadolescenti grazie alla serie “Di4ri” su Netflix e aveva già sperimentato il suo immenso talento per la recitazione. Ho fatto due settimane di provini a Roma, ma Biagio emergeva sempre, per la sua intelligenza emotiva già adulta, la sensibilità appuntita e bilanciata. Si comporta già da professionista: un sedicenne che seguiva le sue lezioni online, poi veniva sul set a girare, infine tornava a fare i suoi compiti. Ho avuto con lui con un rapporto stupendo, aiutato in particolare da Marzia Quartini che è stata la sua actor coach fin da due mesi prima di girare, per insegnargli l’inflessione salentina e renderlo un personaggio credibile.
Con Diego il rapporto è stato per così dire “da prima linea”, è stato molto prezioso per gli spunti tecnici, le soluzioni di messa in scena, per le idee di dialogo: sa prendere la sceneggiatura in mano e adattarla alla sua idea di personaggio. Ero intimorito nelle prime fasi, ma Diego ama il cinema e si è fidato di un esordiente, concedendomi tutto lo spazio possibile, pur avendo lavorato con veri “mostri sacri” come Pupi Avati e Gabriele Salvatores. Uno scambio tra noi che credo poi si veda anche sullo schermo.
In un road movie, qual è il tuo film, le location sono fondamentali. Quali scorci salentini sono stati scelti e che ruolo hanno nella narrazione e nel rapporto tra nonno e nipote?
Ci sono molte strade, ma quando ci sono luoghi precisi, ho cercato di raccontare un Salento e una Lecce non da cartolina. Ho molto ragionato su quali posti scegliere. Per la scena del funerale, ad esempio, ho scelto la chiesa di San Matteo, inquadrata in controzenitale dal basso, per restituirne l’imponenza. Quella mattina casualmente, durante la ripresa, ha attraversato la scena un corvo. Poi sono legato alla scena della camminata di Abatantuono con alle spalle Porta Napoli, che restituisce tutta la particolarità dell’incidenza della luce sulla pietra. Ho scelto anche i murales della zona 167, un vero patrimonio artistico in un quartiere fuori dalle mura del centro storico. Sono legato a Lecce, sono grato di poter lavorare in un contesto nazionale del cinema ma rimanendo nella mia città.
Che bagaglio, professionale e umano, ti ha lasciato questo esordio?
Ho fatto moltissime cose nel mio percorso, dallo studio alla gavetta classica, ma non avrei potuto immaginare l’esordio con una casa di produzione così affermata, una distribuzione così grossa e un attore così “iconico”, le cui battute fanno parte della cultura popolare italiana. Il lavoro di sceneggiatura è durato tre anni, insieme a Pippo Mezzapesa e Antonella Gaeta, e in questo lungo periodo ho imparato a isolare l’emotività e ad avere il giusto distacco per guardare con lucidità un mio progetto, per saperlo leggere e modellare. Penso che questo sia ciò che ti fa passare dalla passione all’essere un professionista.
Che accoglienza ti aspetti da Lecce?
È la proiezione a cui tengo di più, sia per questo film, sia per il mio percorso fino ad ora. Spero di essere accolto, spero ci sia partecipazione e supporto per aver portato un pezzo di Lecce nel cinema italiano. Io di Lecce sono da sempre innamorato, spero che Lecce ricambi.
Il film, che attinge al classico topos del viaggio, reale e metaforico, muove anche riflessioni importanti sulla vita che, spesso beffarda, ha molti modi di manifestare se stessa.
La casualità è protagonista, già l’antefatto lo dice: la morte si prende le persone sbagliate, l’incidente è sempre in agguato. Questo film, farlo, scriverlo, dirigerlo, mi ha insegnato a lasciar andare le cose per il loro corso, perché la casualità regola davvero le cose. Non si può avere il controllo di tutto, nemmeno sulla propria morte. Dovremmo imparare a godere delle cose che abbiamo, leggere meglio le circostanze e, soprattutto, andare piano.