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Addio a Vincenzo Cappello, ultimo proprietario del teatro Apollo che suo nonno fece costruire nel 1926

A novembre del 2016, a pochi giorni dalla riapertura del teatro Apollo dopo anni di oblio, Vincenzo Cappello raccontò a quiSalento la storia del “teatro di famiglia”.

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5 dicembre 1926 - 5 dicembre 2016. Non sono le date di nascita e morte bensì quelle di nascita e rinascita del Teatro Apollo di Lecce. La storia di un sipario che si aprì tra i fasti del Ventennio e si chiuse nell’indifferenza degli anni ’80. Se si è nati dopo il 1986, infatti, non ci si è mai seduti nella platea dell’Apollo e diverse generazioni di bambini che hanno frequentato l’adiacente scuola elementare “Cesare Battisti”, affacciandosi alla finestra della propria aula hanno sempre e solo visto quel tratto di via Trinchese soffocata dalle impalcature del tormentato cantiere per i lavori di recupero.

In mezzo, però, sono accadute molte cose: film muti e operette, stagioni liriche e spettacoli, guerre, concerti e manifestazioni, matrimoni e veglioni, la chiusura, lunghi anni di buio, una vendita e altrettanti anni di lavori per recuperarlo.

In realtà l’imponente teatro, proprio a metà tra la città nuova e più commerciale di piazza Mazzini e quella che abbraccia il suo passato più nobile e barocco, fu terminato da Vincenzo Cappello nel 1912 con l’inaugurazione della sala, poi nel 1914 con l’arena e, infine come è arrivato ai giorni nostri nel 1926 e, a distanza di quasi un secolo, a dicembre, il teatro si riapre dopo la riqualificazione a cura del Comune che lo ha acquistato dalla famiglia Cappello nel 2003. La città riavrà uno dei suoi spazi storici sì ma anche il luogo dove diverse generazioni hanno lasciato ricordi di spensierata giovinezza. L’Apollo sta per riaprire completamente rinnovato e più luminoso, arricchito di elementi moderni e funzionali, e probabilmente con un’anima e una funzione ancora da scoprire anche in virtù dei reperti archeologici del III secolo a.C. (due sarcofagi e i resti di mura messapiche) venuti alla luce durante i lavori. La città, il mondo, sono cambiati ma prima che tutto passi, prima che il foyer torni a riempirsi di dame senza cappello e sia necessario ricordare al pubblico di spegnere i cellulari, forse, prima che l’Apollo, chissà, cambi anche nome, è bene ricordare cosa è stato, cosa ha rappresentato e cosa non sarà mai più.

In un’epoca in cui i teatri erano in concorrenza tra loro, le compagnie più importanti d’Italia facevano tappa al sud del sud, la lirica più raffinata innalzava gli animi e le prime dei film erano serate di gala che generavano code infinite ai botteghini, la cultura era cosa da imprenditori con tutti i rischi che comportava e, anche nei tempi più bui e di guerra, Ferruccio Tagliavini cantava “Voglio vivere così/ col sole in fronte/ e felice canto/ beatamente”.

 


VINCENZO CAPPELLO

L’aroma dolce della pipa che aggancia le narici da un tavolino del bar a pochi passi da piazza Mazzini, precede le presentazioni e la stretta di mano. Parlare, ricordare per Vincenzo Cappello, nipote dell’omonimo costruttore e proprietario, non è facile perché, per lui, questa, non è, solo, la storia di un teatro bensì della sua intera famiglia, della sua infanzia, della sua giovinezza, di una Lecce che non c’è più, di un pezzo di cuore.

Ma cosa è stato l’Apollo per quest’uomo oggi 71enne? “Casa!”, risponde di getto il signor Cappello, “non c’era divisione tra i due ambienti. Da una porta in cucina si accedeva direttamente sul palcoscenico dove con i miei cugini si giocava a calcio”, e l’intero teatro era l’ideale per un nascondino a dir poco complicato ma decisamente divertente. La numerosa famiglia Cappello abitava, infatti, nel palazzo alle spalle dell’imponente ingresso neoclassico. Tutti i figli con rispettive famiglie occupavano i diversi piani e uno di questi, all’occorrenza, ospitava i grandi nomi della lirica come Lauri Volpi, uno dei tenori più in voga nella prima metà del ‘900, fiore all’occhiello del Metropolitan di New York che per la prima volta nella sua carriera, nel 1948, oltrepassò Napoli per esibirsi a Lecce nella “Tosca” e la “Fanciulla del west”, e che, racconta il signor Cappello oggi, “Una volta si arrabbiò moltissimo con mio padre perché le galline che tenevamo sul terrazzo non gli facevano prender sonno”. Ma si instauravano anche rapporti di amicizia sincera e duratura, come con Gino Bechi, grandissimo baritono e attore, che oltre a soggiornare dai Cappello sedeva spesso alla loro tavola e ricambiò più volte a Firenze la squisita ospitalità leccese. E un Vincenzo bambino, magari con il calzoni corti e la riga di lato, ricorda bene il grande Totò. “Potevo avere più o meno 7 o 8 anni. Ricordo uno dei numeri che fece sul palcoscenico: si fletteva di lato fino all’impossibile senza cadere”, ma se nasci e cresci in un teatro, conosci anche i trucchi, e quello del principe della risata era una scarpa letteralmente inchiodata al palco.



Il pallino del teatro a Vincenzo Cappello, figlio del già noto costruttore che aveva edificato la Banca d’Italia dai cui lavori Cosimo De Giorgi intuì l’esistenza dell’anfiteatro romano riportato poi alla luce dalla stessa azienda, venne, giovanissimo, frequentando il San Carlino, il piccolo teatro di legno addossato alle mura del castello, di proprietà Buda. L’Apollo nacque dopo la sua chiusura e demolizione avvenuta in seguito ad una multa insostenibile per irregolarità varie… e a una “discussione” durante la quale, pare, volarono anche schiaffoni, tra Rocco Buda e un vigile-pompiere. Ma il destino del nonno Vincenzo fece capolino spesso da dietro un sipario: “Mio nonno conobbe mia nonna, Linda Cascella, dalla platea del Politeama”, racconta, “era un soprano e cantava con Tito Schipa. Si sposarono, ma lui le impose di lasciare la lirica e ritirarsi dalle scene”.

E così, iniziarono le varie fasi della costruzione dell’Apollo. Un teatro in continua evoluzione, il cui proprietario, da avveduto e lungimirante imprenditore, intuiva il cambiamento dei tempi e assecondava i gusti e le esigenze del pubblico.

Fu quella una stagione culturale inebriante per la città, un periodo di fermento culturale che, probabilmente, non si ripeté mai più. A raccontarlo è un voluminoso libro in cui il Vincenzo Cappello di oggi ha raccolto ogni singolo documento e articolo pubblicato sull’Apollo dal 1912 al 1970. “L’ho fatto rilegare”, dice mentre lo mostra con gesti pacati e amorevoli, “solo per me, un giorno, forse, lo pubblicherò”.



E fiumi di inchiostro scorsero in quegli anni, cronache di vita mondana dalle quali emerge una Lecce dei primi decenni del Novecento gaudente e civettuola, elegante e ridanciana, spensierata e viveur. Un sorriso di tenerezza affiora dinanzi al lezioso ed enfatico linguaggio della stampa dell’epoca che celebrava il modernissimo teatro e tutti gli artisti che calcarono il suo palcoscenico. I caffè-concerto, la rivista, le operette, il teatro di varietà, le graziosissime “chanteuse”, le canzonettiste e le fini danzatrici, le divette e le caffè-chantant, le “squisite ètoille” e le soubrette, i “quadri cinematografici” del muto accompagnati da emerite orchestrine, e “le films teatrali”, “drammi d’amore di passione e lagrime” fino al circo messo su nell’arena, ad agosto, dove si potevano ammirare Arnolds, “l’uomo dalla pelle di acciaio”, e Gavarol, “l’uomo diabolico che compie contorsioni veramente straordinarie”. Gli spettacoli intrattenevano e richiamavano, “con ogni comfort e sublime gradevolezza, nel gaio ritrovo, elegantissimo e aristocratico”, un pubblico scelto, di gusto e numeroso, una larga rappresentanza del “gentil sesso”, “una folla leggiadra di signore e di signorine gentili”, “un pubblico intellettuale che ama deliziarsi alla fonte dell’arte”.



Ma i tempi, erano quelli che erano, l’analfabetismo era endemico, e quando “le films” erano muti, racconta il signor Cappello, “si poteva assistere a scene in cui quando apparivano le scritte dei dialoghi si sentiva qualcuno che chiedeva a qualcun altro di leggere e ancora altri che gridavano dal fondo della sala di ripetere ad alta voce”. Platee affollate di gente e risate, fischi e lazzi, botte e risposte, applausi e nubi di fumatori indefessi, tanto che era necessario aprire quel piccolo miracolo di ingegneria, la bella cupola progettata dall’emerito Pasquale Ruggeri, per arieggiare un po’ la sala.

E i nomi scorrevano sulle pagine e il palco, passata l’epoca del varietà arrivarono le stagioni liriche e quelle di teatro e musica. L’Apollo passava di padre in figlio, da Vincenzo ad Antonio Cappello, “le films” divennero anche sonori “parlati e cantati al 100 per cento”, recitava la reclam, e l’America invase le sale con le sue produzioni che scalzarono il trionfalismo dei film Luce e offuscarono il neorealismo italiano. “L’affluenza per i film era incredibile”, ricorda il signor Cappello, “i primi kolossal americani facevano il pienone: nel ’49 per ‘Bellezze al bagno’, in un solo giorno di programmazione ci furono 5mila spettatori, e per ‘I tre moschettieri’ gli spettacoli continuarono ininterrottamente facendoci chiudere alle 2 del mattino”.

Ma anche la stagione lirica continuava e i due teatri di punta della città, l’Apollo e il Politeama Greco, non solo erano in concorrenza ma anche vicinissimi: basti pensare che, ancora oggi, l’ingresso degli artisti del secondo, si affaccia sulla strada che costeggia il primo. La competizione trasuda da una pagina della Gazzetta del Mezzogiorno del 12 maggio 1942, da un articolo nel quale si “denuncia” con piglio sdegnato che nella stessa settimana si sarebbero rappresentate: “Lucia di Lammermoor” e “Madama Butterfly”, al Politeama, e la “Tosca”, “Madama Butterfly” e “Lucia di Lammermoor” all’Apollo. Una vera indecenza, all’epoca, che suscitò un’indignazione incomprensibile per i leccesi di oggi, orfani dell’orchestra sinfonica e della stagione lirica.

In scena si susseguivano anche nomi come Wanda Osiris, Carlo Dapporto, Macario, Walter Chiari, Nino Taranto, Peppino De Filippo, Elsa Merlini, Nilla Pizzi, Teddy Reno, Claudio Villa, Renato Carosone. Dario Fo, giovanissimo e riccioluto, vi approdò nel 1955 insieme a Giustino Durano e Franco Parenti, con lo spettacolo già dissacrante “Sani da legare” mentre Adriano Celentano lo fece nel 1961 con “Bussola on stage”. Nel frattempo, l’Apollo continuava ed essere sinonimo di casa per la grande famiglia Cappello, era un punto di ritrovo, una sorta di “salotto” o circoletto anche per gli amici. Ci si ritrovava il pomeriggio per chiacchierare e, spesso, nascevano amichevoli discussioni sulla programmazione dei film. Ma la televisione era ormai da tempo entrata nelle case degli italiani. Si era accomodata prima in salotto, come un oggetto di stravagante contemporaneità, e poi anche nel tinello, componente in più della famiglia che zittiva tutti e, sempre di più, aveva sopito il gusto del grande schermo e la magia del teatro.



Nel 1982, quando la gestione passò a Vincenzo Cappello e i suoi parenti, il destino del teatro e del cinema aveva già iniziato il suo lento declino, così come per tutti i teatri e le sale d’Italia. Il colpo di grazia fu l’obbligo di realizzare i lavori necessari per le norme di sicurezza. “Era il 1986. L’impresa era troppo costosa”, dice malinconicamente il signor Vincenzo, “chiudemmo per la pausa estiva e non riaprimmo mai più”. Il sipario calò definitivamente non solo su una parte importante della cultura leccese ma anche su un luogo che fece da cornice ai ricordi più belli, a veglioni e ricevimenti di nozze, ritrovi e soirée. Un luogo che definiva la personalità stessa della città.

E anno dopo anno, pezzo dopo pezzo, l’Apollo sembrò arrendersi alla dimenticanza e la superficialità dei tempi moderni. 

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